10 Domande

  1. Giuseppe, come è che, bellebbuòno, è nata la tua passione per la cucina?

La passione nasce da piccolo. Secondo me le passioni sono qualcosa con cui nasci: delle predisposizioni innate e che ti portano a sviluppare un certo tipo di cose. E poi ci sono dei fattori altamente rilevanti: le persone che si affiancano a te, gli avvenimenti. La mia passione per la cucina nasce anche da persone a me care, come le mie nonne, che mi hanno trasmesso le basi di questa passione che poi è diventata il mio lavoro.

  1. Il tuo primo ricordo legato alla cucina?

Non posso dirne solo uno, non saprei trovare un episodio singolo legato alla scoperta della mia passione per la cucina. Nella testa si rincorrono vari ricordi: sicuramente il Natale, la Pasqua: le occasioni di famiglia e le tradizioni culinarie legate a queste ricorrenze. Per esempio la pasta cresciuta fatta in casa, le pizze… Un’immagine che ho in testa è la spianatoia (che da noi chiamiamo tompagno), in legno massiccio, antico, che la nonna raschiava per togliere la farina in eccesso, che custodiva con cura in un angolo della casa… Nei giorni di festa non mancava mai. Quando c’era il tompagno sulla tavola vuol dire che si stava facendo qualcosa di buono, che era una giornata di festa. E io mi sedevo vicino mia nonna Antonietta a guardare, e mi piaceva tanto…

Un’altra immagine è legata a nonna Gilda: la sua pasta e patate, le alici fritte, lo stoccafisso con olive e pomodorini…

  1. Quando hai capito che la tua passione poteva diventare il tuo lavoro, la tua vocazione, il tuo posto nel mondo?

Avevo appena finito la terza media, un momento in cui devi cominciare a pensare a cosa vuoi studiare da lì a cinque anni, e di conseguenza cosa fare nella vita. Scelsi l’alberghiero, ma all’inizio ero titubante, ancora non ero di sicuro di aver fatto la scelta giusta: all’epoca in TV non c’erano tutti gli chef che si vedono oggi, e in generale si pensava che l’alberghiero fosse un po’ una scuola per ragazzi senza arte né parte. Nei primi mesi di scuola chiesero a tutti di acquistare le tre divise per i tre corsi: sala, ricevimento e cucina. Quando indossai per la prima volta la divisa da cucina mi sono sentito per la prima volta davvero a mio agio. Mi sentivo importante. Forse lì ho capito che era davvero la mia passione. Il corso di cucina cominciò solo sei mesi più tardi, ma nel frattempo credo di averla indossata a casa praticamente un giorno sì e l’altro pure. Mi piaceva guardarmi e farmi guardare: se arrivava qualcuno in casa andavo a cambiarmi per presentarmi vestito da cuoco. Manco fosse carnevale!

  1. Una volta preso il diploma?

Ho cominciato a frequentare le cucine, a fare la cosiddetta gavetta. Quello della cucina è un mondo difficile, ed entrarci è davvero dura: è stressante fisicamente e psicologicamente, ti chiedi se ce la farai mai, se hai fatto la scelta giusta… gli inizi sono stati duri, ma hanno formato il mio carattere lavorativo. Col tempo capii che la cosa importante è l’approccio che hai alle cose: quanto sei disposto a metterti in gioco e imparare.

  1. Cosa ti spingeva ad andare avanti, nonostante le prime batoste?

Certamente pensare al fatto che io avevo un obiettivo chiaro: volevo diventare qualcuno e di dimostrare a me stesso e agli altri che una passione può diventare un lavoro, con sacrificio.

  1. Quale esperienza ti ha formato di più?

Nessuna in particolare, negli anni ho raccolto le esperienze più disparate e da ognuna ho cercato di prendere il più possibile da chi mi lavorava a fianco, a prescindere dall’età e dagli anni di esperienza.

  1. La cosa più bizzarra che ti è successa in cucina?

Tante, troppe! Forse il capodanno di qualche anno fa: ricordo un menù chilometrico, stavamo preparando il soutè di cozze e vongole. A un certo punto entrò il titolare urlando, sentii un piccolo scoppio e mi girai di scatto: era scattata la mezzanotte, e nessuno se n’era accorto! Quel brindisi al sapore ci cozza mi è rimasto impresso. In cucina si ride tanto, si sta insieme, si creano rapporti personali…

  1. Cosa pensi degli chef in tv?

Gli chef in tv sono fondamentali per rilanciare l’immagine del nostro mestiere, ma potrebbe essere anche la nostra rovina. Gli show rispondono ad esigenze che spesso non sono quelle di una vera cucina: chef che urlano per esigenze di copione creano un immaginario che non risponde alla realtà Sicuramente la cucina di un ristorante non è un ambiente sempre sereno, ma non si comanda solo urlando. In cucina si fa silenzio, si lavora insieme si dialoga: è una squadra, e la squadra funziona se ognuno gioca bene il proprio ruolo e ci si aiuta l’un l’altro.

  1. Pensi che il gusto dei clienti sia cambiato dopo queste trasmissioni?

Credo che queste trasmissioni hanno creato degli equivoci, ma ci sono delle perle molto utili a divulgare alcune cosa. Oggi il cliente base è un fanatico della applicazioni. Siamo tutti un po’ critici gastronomici. Queste applicazioni hanno sostituito il vecchio passaparola, e sicuramente è uno strumento utile, ma non sempre le “recensioni” sono in buona fede. Anche io guardo su internet per farmi un’idea di un locale che non conosco, ma cerco sempre di valutare con la mia testa: ovviamente non tutti abbiamo gli stessi gusti.

  1. Un’ultima domanda prima di salutarci: cosa mi consigli di cucinare oggi?

Ti consiglio un ottimo piatto creato insieme ad un mio amico: pacchero di Gragnano lardiato. Semplicissimo da fare: si lascia rosolare del Lardo di colonnata in padella con un bel pomodoro, (meglio pacchetella schiacciata a mano con una forchetta), lo lasci rapprendere, ci salti la pasta, due minuti ed è pronto. Mantecare con pecorino e pane grattugiato. Ovviamente non può mancare la fogliolina di basilico spezzata a mano: è il mio tocco di classe e semplicità.